Riparare i viventi – Maylis De Kerangal

Riparare i viventi di Maylis De Kerangal è uno dei libri più belli che io abbia letto in questi ultimi mesi. Lo so, dovrebbe stare nella rubrica del “libro del mese” ma è arrivato inaspettatamente sul comodino e non mi ha nemmeno dato il tempo di realizzare dove fossi. L’ho letto in poche ore e mi ha talmente colpita al cuore (un organo non scelto a caso) che non avevo voglia di aspettare la fine del mese per raccontarvelo.

Edito nel 2015, ha vinto molti premi e riconoscimenti letterari, a testimonianza della bravura di questa scrittrice – che ammetto non conoscevo – e sarà presto sul grande schermo, in un film diretto da Katel Quillévéré (pane per la mia rubrica “Film da libri”).

Di cosa parla? Di un trapianto di cuore. Simon, un giovane ragazzo vittima di un incidente stradale, è il donatore e dall’altra parte c’è il ricevente. Una persona in attesa di poter vivere grazie alla morte di un’altra. Quello della donazione degli organi è un tema molto delicato, che mi fa sempre molto riflettere. È un atto di altruismo e generosità senza limiti, raccontato qui magistralmente dalla penna di questa scrittrice francese così diretta. Un libro commovente, su cui versare qualche lacrima, che racconta le 24 ore che passano dalla morte alla vita.

L’arresto del cuore non è più segno di morte, ad attestarla è ormai l’abolizione delle funzioni cerebrali. In altri termini: non penso dunque non sono. Deposizione del cuore e consacrazione del cervello – un colpo di stato simbolico, una rivoluzione.

Dare senza ricevere nulla in cambio: quanti di noi sarebbero disposti a tanto? È un tema davvero delicato, che De Keragal ha affrontato meravigliosamente in queste pagine, descrivendo quello che non é un semplice intervento chirurgico su un corpo che non connette più, ma un gesto che riconnette il singolo alla comunità.

Un rifiuto limpido era meglio di un consenso strappato nella confusione, ottenuto col forcipe, e rimpianto quindici giorni dopo da persone distrutte dal rimorso, che perdevano il sonno e sprofondavano nel dolore, bisogna pensare ai vivi dice spesso, masticando l’estremità di un fiammifero, bisogna pensare a quelli che restano […]. Seppellire i morti e riparare i viventi.

E in queste 24 ore si intrecciano più vite, più storie, come quella tra Sean e Marianne, due genitori che hanno perso un figlio e che vedono le loro esistenze stravolgersi in pochi minuti, che sono loro a dover prendere una decisione tanto importante, che sono loro a dover scegliere. In questo breve passo si coglie tutta la bellezza della narrazione della De Keragal, fatta di frasi interminabili, con pochissimi punti, che trascinano con sé ogni pensiero come un’onda che parte dal centro del mare e cresce, cresce, cresce prima di infrangersi sulla battigia.

La faccia di Sean sullo schermo – le due fessure sotto le palpebre indiane – s’illumina sul suo cellulare. Marianne mi hai chiamato. Lei subito si scioglie in lacrime – chimica del dolore -, incapace di articolare una parola mentre lui ripete: Marianne? Marianne? Probabilmente deve aver pensato che l’eco del mare compresso nella darsena disturbasse la ricezione, deve aver forse confuso il crepitio delle onde con la bava, il moccio, le lacrime mentre lei si mordeva il dorso della mano, paralizzata dall’orrore improvviso che le suscitava quella voce tanto amata, familiare come solo una voce sa esserlo, ma diventata d’un tratto estranea, mostruosamente estranea, perché giunta da uno spazio-tempo in cui l’incidente di Simon non aveva mai avuto luogo, un mondo intatto lontano anni luce da quel bar vuoto; e ora stonava, quella voce, toglieva armonia al mondo, le straziava il cervello: era la voce della vita di prima. Marianne ascolta quell’uomo che la chiama e piange, pervasa dall’emozione che a volte proviamo dinanzi a quel che, nel tempo, è sopravvissuto indenne, e scatena il dolore dell’impossibilità di tornare indietro – un giorno dovrà capire in quale direzione scorre il tempo, se è lineare oppure traccia cerchi rapidi di un hula hoop, se forma degli anelli, si avvolge come la nervatura di una conchiglia, se può prendere la forma di quel tubo che ripiega l’onda, aspira il mare e l’universo intero nel suo rovescio scuro, sì, dovrà capire di cosa è fatto il tempo che passa.

Il romanzo, edito da Feltrinelli, è stato tradotto da Maria Baiocchi e Alessia Piovanello. A loro, anche, va il merito di aver trasferito nella nostra lingua il senso di tutta la storia.

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