Raccontare l’11 settembre: L’uomo che cade – Don DeLillo

Con L’uomo che cade Don DeLillo, grande narratore della storia americana, ha scelto di raccontare la tragedia dell’11 settembre da due punti di vista completamente antitetici, senza entrare direttamente nell’evento ma scegliendo due strade che corrono parallele: il ritorno a casa di un sopravvissuto e la preparazione all’attentato di uno dei terroristi. Un prima e un dopo che cercano di spiegare un durante che è negli occhi di tutti noi, nonostante siano passati 14 anni.

Keith Neudecker e Hammad. Sono questi i nomi dei due protagonisti principali. Uno lavorava nelle Torri Gemelle e si è salvato per miracolo, uscendo dall’edificio poco prima del crollo, l’altro è uno dei 19 pazzi che ha messo in moto e portato a compimento la strage del secolo. Attraverso l’analisi e l’intrecciarsi (solo a livello di organizzazione dei capitoli) di questi due personaggi, Don DeLillo cerca di raccontare un mondo devastato, un’America che si è trovata improvvisamente catapultata nella paura.

Nell’aria c’era ancora il boato, il tuono ritorto del crollo. Il mondo era questo, adesso. Fumo e cenere rotolavano per le strade e svoltavano angoli, esplodevano dagli angoli, sismiche ondate di fumo cariche di fogli di carta per ufficio in formati standard dai bordi taglienti, che planavano, guizzavano in avanti, oggetti soprannaturali nel sudario del mattino.

Il titolo si riferisce a un’immagine in particolare: un uomo che, forse preso dal panico, decide – come tanti, purtroppo – di lanciarsi dalla Torre, non vedendo altra via di fuga. E a quest’uomo sembra rifarsi anche l’artista di strada che l’ex moglie di Keith, Lianne, incontra un giorno per caso. Egli si lancia da altezze spropositate e luoghi pericolosi quanto inaccessibili, ricreando la postura di quell’uomo a testa in giù, con le braccia lungo i fianchi e un ginocchio sollevato, per dare testimonianza con le sue performance di un abbandono al nulla e all’inevitabile.

Aveva sentito parlare di lui, un artista performativo noto come L’uomo che cade. Era apparso diverse volte, la settimana prima, senza preavviso, in vari punti della città, appeso a questa o quella struttura, sempre a testa in giù, con indosso giacca e pantaloni, una cravatta e scarpe eleganti. Richiamava alla memoria, naturalmente, quei momenti assoluti nelle torri in fiamme, quando la gente era precipitata, o era stata costretta a saltare. L’avevano visto penzolare da una balconata nell’atrio di un albergo, e la polizia l’aveva scortato fuori da una sala concerti e da due o tre palazzi di appartamenti con terrazze o tetti accessibili.
[…]

Intendeva riflettere la postura di un uomo in particolare che era stato fotografato mentre cadeva dalla torre nord del World Trade Center, a testa in giù, con le braccia tese lungo i fianchi, un ginocchio sollevato, un uomo immortalato in caduta libera sullo sfondo incombente dei pannelli verticali della torre.

L’autore non ha voluto solamente rendere omaggio alle vittime di una strage ancora oggi incomprensibile, ma scrivere pagine di vera storia americana, parlare dell’uomo nella post-modernità, del crollo – oltre che fisico, quello delle Twin Towers – anche metaforico, dei valori e delle convinzioni che pervadevano non solo gli statunitensi ma la popolazione mondiale tutta. A distinguerci durante la caduta, a cui prima o poi tutti soccombiamo, è la modalità in cui decidiamo di farlo. A testa in giù, con le braccia lungo i fianchi e un ginocchio piegato. O in qualsiasi altro modo. E i tentativi di assorbire il colpo.

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