Ho avuto il grandissimo onore di stringere la mano (e farmi un selfie) con Elizabeth Strout, un paio di anni fa, al Festivaletteratura di Mantova. Lei era agitatissima perché stava per essere intervistata davanti a un pubblico davvero numeroso, sembrava una bambina, tutta timida ed emozionata. Io mi sono avvicinata, con altrettanta timidezza, e le ho chiesto un’autografo sulla mia copia de I ragazzi Burgess, e già che c’ero mi sono lanciata anche in un “Can we take a photo?” È stata gentilissima, ne abbiamo fatte tre/quattro, ogni volta voleva vedere se eravamo venute bene, poi ha chiesto alla ragazza che l’accompagnava di farcene una lei, così da essere sicure che ne uscisse un risultato accettabile, nonostante la scarsa illuminazione. C’era pochissimo tempo, la presentazione incalzava, ma lei ha fatto tutto con calma, per potermi rendere felice ed esaudire la mia richiesta. Averne, di persone così umili, nonostante il Pulitzer.
Ma veniamo a noi. Oggi conosciamo uno dei suoi personaggi migliori: Olive Kitteridge. La protagonista, che dà il titolo al romanzo che le è valso l’ambito riconoscimento per la narrativa nel 2008 e l’anno successivo pure il Premio Bancarella, nell’edizione italiana curata da Fazi, è uno dei grandi raccontati da Fabio Stassi nel suo Libro dei personaggi letterari.
Più che un romanzo a sé, in realtà, è una raccolta di racconti, incentrati sulla vita di Olive e di altri abitanti di Crosby, immaginaria cittadina del Maine. Le varie vicende, slegate temporalmente tra di loro, sono tenute insieme da un unico filo conduttore: il dolore per i rapporti umani/familiari disincantati e spesso deludenti, per il tradimenti, per l’avanzare della vecchiaia e della morte.
Non ho mai pianto a un matrimonio, e non mi sono messa a credere alla felicità. Tutto quello che ho imparato è che si vive senza consapevolezza e che le cose non sono mai giuste.
Oltre al libro, vi consiglio anche la mini-serie che ne è stata tratta dal canale HBO, con una Frances McDormand superlativa.