L’ultima famiglia felice – Simone Giorgi | Libro del mese #Marzo

Il libro più bello che ho letto il mese scorso non faceva parte della cinquina che avevo scelto. È capitato, infatti, che una sera, messa a letto la fagiola e rintanatami sotto il piumone, mi sono resa conto di non aver aggiornato la libreria dell’e-reader con i titoli che avevo in programma. Troppo stanca per alzarmi e andare ad accendere il pc, ho deciso che tra le decine di ebook che già avevo caricato ce ne doveva pur essere uno bello da leggere. E così mi sono imbattuta in Simone Giorgi e nel suo capolavoro: L’ultima famiglia felice.

Un romanzo che, secondo i giurati del Premio Calvino, merita la lettura perché vi risuona:

“il rumore del presente. L’autore sviluppa con perfezione geometrica la drammaturgia di una famiglia italiana middle class che è insieme un caustico e acribico ritratto delle pratiche educative programmaticamente corrette dei nostri tempi, palesando un’immaginazione cinematografica ed esibendo una scrittura in superficie semplice, dietro cui si cela una mano di chirurgica esattezza. Al centro campeggia la figura di un padre mite, inesorabilmente destinato, nella sua illusa visione delle cose, alla disfatta ideale e sentimentale”.

“L’ultima famiglia felice” infatti ha ricevuto una menzione speciale nell’edizione 2014 del Premio e a mio avviso se l’è meritata tutta. Perché quella della famiglia Stella è una storia in cui tante famiglie possono identificarsi: e non c’è niente di meglio di un libro che parla di noi.

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L’ultima famiglia felice – Simone Giorgi (Einaudi)

Matteo Stella è un padre indulgente – forse fin troppo -, comprensivo e sempre pronto ad assecondare le scelte dei figli. Un padre moderno, verrebbe da dire; non uno di quei bui personaggi che hanno l’ambizione di governare e mettere in riga tutti. Questa indulgenza, però, gli costa cara, perché è proprio a causa di una sua non ribellione che il figlio Stefano decide di alzare un muro contro di lui.

Matteo lo adorava, suo figlio, è normale. Stefano no. Stefano lo odiava, suo padre. Come ti può odiare un ragazzino di tredici anni: con tutta la rabbia del mondo. Aveva passato buona parte della notte a sbattere una pallina da tennis contro il muro che lo separava dalla stanza dei genitori. Colpo, silenzio, colpo, silenzio, colpo, silenzio. Lo aveva fatto per strappare Matteo dalle retrovie e trascinarlo sul campo della battaglia finale, spingerlo ad aprire senza permesso la porta su cui c’era un cartello scritto a mano: papà qui non può entrare.
E Matteo, nonostante le insistenze di sua moglie Anna, lí non intendeva entrare. Non intendeva neppure sgridare Stefano, obbligarlo a smetterla. Aveva una teoria: le urla sono per il mercato, le imposizioni un abuso infruttuoso, e rispondere alle provocazioni è la cosa piú stupida e pericolosa che puoi fare. Bisogna lasciare agli altri il loro spazio, farli sfogare, rispettarne l’autonomia anche se corrode la tua serenità. Tanto piú se quegli altri sono adolescenti alle prese col compito impervio di capire quale sia, il proprio spazio.

Il romanzo è il ritratto di una famiglia fatta di silenzi e insicurezze, di segreti, di apparenze e di bugie, di tradimenti e di perdono.

I vetri sono come le famiglie, anche quelle felici, che solo a uno sguardo esterno sembrano tutte uguali.

Ma, Tolstoj docet, “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”.

A prendere più spesso le redini del racconto è lo stream of consciousness di Matteo Stella, che ritorna più volte a chiedersi che padre/marito è stato.

Lo stile narrativo, però, è la parte migliore. Saltando tra passato e presente, tra ricordi e punti di vista, Simone Giorgi fa parlare tutti i membri della famiglia e dà al lettore la possibilità di fare le sue considerazioni, lasciando però – per nulla velatamente – il sentore che qualcosa di grosso deve per forza succedere. Una pentola che bolle, una brace nascosta sotto la cenere aspetta solo di dare il via all’incendio.

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